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SOLE 24 ORE. SOLO L’INDUSTRIA SALVA L’EUROPA

di Adriana Cerretelli

«Ma davvero l’Europa vuole continuare a fare l’idiota del villaggio globale, restando prigioniera di dogmi assoluti in politica economica e monetaria, di rigidità normative e di non-politiche comuni a prescindere?». Il grido di esasperazione e di impotenza arriva da chi da anni ne maneggia le segrete cose. E vede Stati Uniti e Giappone rialzare la testa, giocare di flessibilità e pragmatismo e risorgere dai propri errori ritrovando dinamismo e sviluppo, mentre l’Europa continua a declinare. Indomita e ostinata. Si litiga quasi ogni giorno a Bruxelles sul fiscal compact, sull’eccesso di rigore che per ora ha prodotto più danni che benefici, più recessione che meno debiti. Sulle riforme strutturali tardive che comunque richiedono anni per far ripartire crescita e competitività di sistema. Sulle mani legate della Bce non meno che sulla mitica dell’euro forte. Si parla molto meno, invece, di industrial compact, di politica industriale e rilancio del manifatturiero. Eppure sono altrettanto fondamentali per carburare il motore europeo stanco e spompato. «Barack Obama ha vinto le elezioni perché ha creduto e investito nell’auto americana in Ohio, facendo politica industriale» ricorda Antonio Tajani, che si batte per farne una solida politica Ue. Apripista da anni, il commissario europeo all’Industria ora spera di raccogliere qualche risultato: al vertice Ue di giugno i capi di Governo dei 27 discuteranno infatti di politica industriale. All’Europarlamento a fine maggio, patrocinata dagli euro-socialisti, si terrà una grande conferenza sull’argomento. Segno che i tempi e le sensibilità forse stanno cambiando anche in Europa. Del resto la lezione americana dà più che da pensare. Dall’inizio della grande crisi finanziaria a oggi, la produzione manifatturiera europea ha perso il 12,4% rispetto al 2008, nell’ultimo anno è calata del 2,8%. Il suo contributo al Pil ha ceduto un punto scendendo all’attuale 15,1%. Nessuna delle cinque maggiori economie dell’eurozona, tedesca inclusa, è tornata ai livelli produttivi pre-crisi nonostante 4.850 ristrutturazioni di imprese, pari al 52% del totale delle ristrutturazioni annunciate tra il 2007 e il marzo 2013. Sono stati persi 3,8 milioni di posti di lavoro, l’11% dell’occupazione totale ante-crisi. La produttività del lavoro cresce poco, più che altro perché si riduce la forza lavoro. Il costo orario del lavoro continua a salire: nell’ultimo quinquennio in media da 25,7 a 28 euro all’ora nell’eurozona. Esattamente nello stesso periodo il manifatturiero americano, dato per morto dissanguato dalla concorrenza cinese, mini-costi del lavoro e delocalizzazioni in massa a Pechino e dintorni, è invece ripartito alla riscossa. Da qui al 2015 potrebbe dare filo da torcere a tutti, Europa compresa. E anche dimostrare che il dragone cinese non è invincibile. Come? Quando nel 2001 la Cina entrò nella Wto, il salario medio Usa era 22 volte più alto di quello cinese. Non c’era partita anche se ci volevano, come ci vogliono, tre cinesi per fare la stessa produttività di un americano. Da qualche anno però le cose stanno cambiando, i salari aumentano nei paesi i emergenti, la globalizzazione muta, si evolve e si complica. Dopo lo shock iniziale che li aveva tramortiti, gli Stati Uniti si sono messi al vento: hanno reagito puntando tutto sull’aumento di produttività, innovazione tecnologica, flessibilità del mercato del lavoro ed export. Oggi un salario Usa aggiustato alla produttività è inferiore del 33% a uno giapponese e del 25% a uno tedesco, mentre si accorcia la distanza con quelli cinesi che crescono del 15-20% annuo. Secondo uno studio del Boston Consulting Group, di questo passo nel 2015 la differenza nei costi totali per produrre manufatti (a media e bassa intensità di lavoro) sarà inferiore al 10%. Il che accelererà il rimpatrio degli investimenti americani che è già cominciato. La rilocalizzazione produttiva negli Stati Uniti nella misura almeno del 20-35% sfocerà in un’espansione dell’attività economica da 100-150 miliardi di dollari con creazione di 2,5-5 milioni di nuovi posti di lavoro, tenuto conto che un occupato nel manifatturiero ne crea altri tre in altri settori. Il rientro della produzione dalla Cina ne avrebbe già creati 50-100mila. Senza contare la rivoluzione dello shale gas, che ridurrà al minimo i costi dell’energia negli Stati Uniti, destinati a diventare il primo esportatore mondiale di metano. Ce ne è più che abbastanza per dare la sveglia all’Europa che presto si dovrà misurare non solo con la concorrenza cinese ma anche con quella, ancora più agguerrita, degli Stati Uniti sui mercati mondiali e in casa propria, se è vero che la resurrezione annunciata del manifatturiero Usa punta alla cattura del 2-7% dei mercati di esportazione di Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna e Giappone. La riconquista rischia di rivelarsi un gioco da ragazzi se davvero, come dicono alcune previsioni, nel 2015 i salari tedeschi aggiustati alla produttività saranno superiori del 50% a quelli Usa e quelli francesi del 54%, quelli italiani a ridosso. Se i prezzi del gas saranno più alti del 195% in Germania, del 180 in Francia e del 152 in Italia. E quelli dell’elettricità per l’industria saranno superiori rispettivamente del 107%, del 56 e del …268% in Italia. Se non correrà al più presto ai ripari, l’industria europea rischia di venire soffocata dalla tenaglia cino-americana. Se il manifatturiero Usa ha saputo risorgere dalle proprie ceneri, non si vede perché quello europeo non potrebbe fare lo stesso. Del resto il crollo in marzo della produzione industriale nell’eurozona, -1,7% annuo, con la Germania a -1,5, la Francia a -1,6 e l’Italia addirittura a -5,2% è l’ennesimo campanello di allarme e una sferzata ad agire. Presto. «La domanda negativa dal sud Europa sta migrando verso nord» avverte Keith McLoughlin, il ceo del colosso Electrolux. «Dobbiamo creare un percorso favorevole allo sviluppo dell’economia reale, rilanciando l’industria manifatturiera con norme certe, accesso più facile al credito, una burocrazia meno pesante. L’Europa può fare più politica sociale con le infrastrutture che con i sussidi ai disoccupati» insiste Tajani. Invocando il mercato integrato dell’energia, un atteggiamento più pragmatico sullo sfruttamento dello shale gas europeo, una politica ambientale forte ma realistica, una politica di concorrenza più al passo con i tempi globali. Purtroppo la crisi dell’euro ha diviso l’Europa e il suo mercato invece di cementarli. Non sarà facile tornare indietro, superare le nuove barriere della sfiducia reciproca. Ma non c’è alternativa per evitare di essere spianati dai rulli compressori di Cina e Stati Uniti e probabilmente presto anche del Giappone. Al principio degli anni 80 fu proprio il grido di allarme dell’industria europea a mettere in moto il processo che diede vita al mercato unico. Oggi urge una nuova mobilitazione generale per dare scacco al declino.