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Un Hub per l’Impresa Sostenibile in tema ambientale, economico, sociale

Essere sostenibili non è solo una necessità, ma anche un’opportunità che coinvolge numerosi attori sociali, dalla politica al mondo economico.

Da queste considerazioni è partita la Confartigianato vicentina per promuovere l’Hub Impresa Sostenibile, una realtà che riunisce tutti i servizi dedicati alle aziende in chiave di Sostenibilità ambientale, economica e sociale: dalla valutazione secondo i criteri ESG, al Bilancio di sostenibilità, ai processi di Economia Circolare. Per presentare la nuova realtà, Confartigianato ha promosso un incontro dal titolo “Essere sostenibili. Impariamo dalla natura, oltre i luoghi comuni”.

Ospiti dell’appuntamento, cui hanno contribuito la Camera di Commercio di Vicenza ed EBAV e che ha completato il fitto programma della Settimana dell’Energia e della Sostenibilità, sono stati Stefano Mancuso (scienziato, saggista, direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale – LINV dell’Università degli Studi di Firenze) e Giacomo Moro Mauretto, in arte Entropy for Life (Biologo Evoluzionista e divulgatore scientifico).
Punto di partenza la constatazione che la questione ambientale, il depauperamento delle risorse, la perdita di biodiversità e i conseguenti interventi di tutela ambientale si impongono con sempre maggior urgenza all’opinione pubblica. Un contesto in cui si inseriscono le imprese artigiane, molte delle quali hanno già intrapreso un percorso, qualcuna conoscitivo e altre già operativo, verso forme di sostenibilità anche proprio grazie alle competenze fornite dal nuovo Hub. 

Da ciò un legittimo quesito: quante e quali politiche, azioni e prodotti possono realmente definirsi sostenibili? A tale domanda si è cercato di rispondere nel corso dell’incontro.

SINTESI DELL’INTERVENTO DEL PROF. MANCUSO

Il nostro pianeta
Di sostenibilità si inizia a parlare diffusamente negli anni ’70, a partire da una data immediatamente precedente: quella del 24 dicembre 1968. Ovvero quando l’Apollo, nella missione precedente allo sbarco sulla Luna, realizzò una serie di scatti a colori del nostro pianeta nel suo totale. Da quelle immagini ricavammo due impressioni: che la Terra è piccola e che rappresenta un unicum. 

Se prima pensavamo che non ci fossero problemi di risorse né di ‘dispersione’ dei rifiuti, quelle foto misero l’essere umano davanti a una realtà ben diversa da quella creduta e vissuta fino ad allora. Circa l’essere un unicum, a caratterizzare il nostro pianeta è la vita che lo pervade in tutta la sua totalità e questa non è una situazione comune, ma piuttosto un’eccezione. Non si hanno infatti evidenze scientifiche che dimostrino il contrario; perciò, utilizzando il principio di maggior prudenza, secondo il quale se non c’è evidenza di un fenomeno ci si deve regolare come se non esistesse, dobbiamo comportarci come se la vita ci fosse solo sulla Terra. Una vita che esiste solo nella biosfera, ovvero in uno strato di appena 20 chilometri. Da tutto questo discende il concetto di sostenibilità, intesa come aver cura di ciò che abbiamo.

Qualche numero sulla “non sostenibilità”
Ciò premesso, la nostra specie umana ha avuto e ha un impatto su tutte le altre, di fatto praticando l’insostenibilità. In questo senso, il 2022 è un’altra data importante: un anno epocale, ovvero che segna un prima e un dopo, poiché il peso delle produzioni dell’umanità, nella sua breve esistenza sul pianeta, è più alto di quello della vita. Ovvero, c’è più cemento, asfalto, plastica, che… vita. All’inizio del ‘900 il peso dei manufatti umani era dell’1%, ora supera il 100%. E tutto questo in appena un secolo. Di più: la Cina nel 2021 ha prodotto la stessa quantità di cemento di quella degli Stati Uniti in 100 anni.

La vita è fatta per l’82% di alberi e piante. 12mila anni fa, gli uomini diventarono, da raccoglitori che erano, agricoltori e stanziali, iniziando a costruire i primi insediamenti e dando vita alla civiltà comunemente intesa. Da allora è stato un crescendo. Fino ad arrivare ai 2mila miliardi di alberi tagliati negli ultimi due anni, a fronte degli iniziali 6mila miliardi.
Ma chi ha provveduto a questo taglio? I Romani? No. La foresta primaria, quella temperata, fino a 200 anni fa si sviluppava in tutta Europa, tanto che copriva il tragitto da Palermo a Oslo. E poi? Negli ultimi 200 anni l’abbiamo fatta “sparire”.
E che dire degli animali? O del costo della perdita della biodiversità? Dal 1970 a oggi, il numero totale degli animali è diminuito tra il 50% e il 70%; alcuni gruppi sono addirittura spariti, gli anfibi sono calati dell’80%. Oggi prevalgono i mammiferi: sono il 97% degli “animali”, ovvero gli uomini e gli animali allevati per farne il suo cibo.

Temperature in aumento
Non c’è dubbio che la colpa del riscaldamento globale (tra l’altro studiato e dimostrato per la prima volta da uno scienziato donna nel 1850!) sia dell’uomo e delle sue attività. Così, rispetto agli inizi del ‘900, la temperatura in Europa è aumentata di 2,2°; con l’Italia che arriva a un +2,4° e molte città che, rispetto appena agli anni ’60, hanno aumentato la temperatura di +3,3°.
Qualcuno dirà: che saranno mai pochi gradi? Basta un esempio per capire: se il nostro corpo sta bene con una temperatura di 36/36,5°, quando arriva ai 38/38,5°, ovvero uno o due gradi di più, inizia a stare male, e questa condizione di malessere alla lunga non è compatibile con la vita. 

Ecco perché è bene aver chiaro che ogni elemento del nostro pianeta è influenzato, e risente, delle variazioni anche minime della temperatura. Colpevole di tale surriscaldamento è l’anidride carbonica, la cui produzione negli anni è progressivamente aumentata, tanto che da 1 parte per milione del 1990, ora siamo arrivati a 3 parti per milione. Si deve quindi intervenire per tagliare le emissioni. Ma come?
La Comunità Europea si sta muovendo per fare qualcosa, ma il peso delle emissioni dell’Europa sul totale globale è del 7%! Perché altri Paesi non intervengono, o lo fanno blandamente? Perché ridurre l’anidride carbonica vuol dire ridurre la produzione e quindi la ricchezza, e nessuno vuole questo. Il nocciolo sta proprio qui: vanno disaccoppiate queste curve. Non necessariamente ricchezza vuol dire inquinamento.

Le città come “isole di calore”
Possiamo partire dalle città. In pochi anni sono cambiate molte abitudini. Si prevede, ad esempio, che nel 2070 il 70% della popolazione risiederà nelle città e il 30% in contesti/ambienti rurali. Negli anni ’70 era esattamente il contrario. Oggi sempre più persone vivono in città, perché sono contesti più efficienti in cui abitare, eppure c’è un paradosso: le città occupano l’1,7% della superficie del pianeta ma producono l’80% dei rifiuti globali e utilizzano un’analoga percentuale di risorse. Allora, si può anche continuare a vivere in contesti urbani purché si pensino o si costruiscano le città in maniera diversa. Attualmente i nostri contesti urbani sono isole di calore che, unite alle ondate di calore, le rendono letteralmente invivibili, perché sopra una certa temperatura (28°) ne risente il sistema cardiocircolatorio. Le città, ad esempio, vanno “de-permeabilizzate” per renderle più resistenti al calore e ridurne l’impatto.
Bisogna poi convertisi, nel senso più letterale del termine, nei comportamenti e acquisire la consapevolezza che ogni azione, grande o piccola, quotidiana o eccezionale, ha un impatto: si tratta di renderlo il meno deleterio possibile per il nostro pianeta. E per prime vanno educate le giovani generazioni.

In conclusione: luoghi comuni?
Cosa di deve fare, quindi, in termini di sostenibilità? Risposta difficile da dare. Le imprese per loro natura sono molto diverse, perciò ognuna (e qui entra in campo un’associazione come Confartigianato) deve trovare la propria strada per ridurre le emissioni e attuare economie circolari. Sempre in tema di produttività, in Italia si vive l’ennesimo paradosso: abbiamo 3mila ettari di nuova cementificazione l’anno (con Lombardia e Veneto in testa) eppure il Paese va verso l’inverno demografico. Si costruiscono, e si sono costruiti, capannoni e ancora capannoni, moltissimi dei quali ora sono fermi, chiusi. Perché non vengono buttati giù? Perché i proprietari – dal loro punto di vista giustamente – salvaguardano i volumi. Però, se l’input non viene dai privati, dovrebbe arrivare dalla legge; legge che, per quando possa essere spiacevole per il singolo, dovrebbe agire per il bene comune e dirgli: “Se hai terra impermeabilizzata e inutilizzata da un tot di anni, o la sistemi o permetti ad altri di utilizzarla”. 

Per quanto riguarda i singoli comportamenti, considerato l’impatto in termini di anidride carbonica della catena alimentare (attestato al 30%), basterebbe ridurre il consumo di carne del 25% per avere qualche risultato: diminuire del 7% le emissioni e risparmiare un territorio grande quanto gli Stati Uniti. Pure gli sprechi, soprattutto alimentari, vanno ridotti: dal campo alla tavola si butta il 40% del prodotto, e anche in questo caso si potrebbe fare molto.